La paura della novità, del cambiamento, la paura della responsabilità e del fallimento cerca in noi una giustificazione. E allora, come don Abbondio davanti al card. Borromeo, nel cap. XXV de I Promessi Sposi, ci diciamo che «il coraggio, se uno non ce l’ha, mica se lo può dare?». Così, come don Abbondio, ce ne torniamo alle nostre letture serali su Carneade, molto più rassicuranti.
Forse tante volte abbiamo deriso e insultato don Abbondio, eppure mi sembra di aver intravisto tante volte il volto del curato intorno a me e, ogni tanto, anche dentro di me.
Sarà proprio il card. Borromeo a ricordare a don Abbondio gli impegni che si è assunto con la sua ordinazione e la responsabilità che gli è stata affidata nella cura del gregge. Il coraggio infatti non c’è dentro di noi già bello e pronto, ma nasce quando decidiamo di vivere veramente.
Sarebbe più utile dunque cercare dentro di noi le ragioni della paura di vivere, di quella paura che impedisce a don Abbondio di lottare per la giustizia e di difendere i più deboli.
Proprio per aiutarci a scoprire i motivi delle nostre paure, il Vangelo usa il linguaggio dell’economia, parla di soldi e di banche, di affari e di interessi. Forse abbiamo paura dunque perché guardiamo il mondo con gli occhi dell’investimento. E di conseguenza abbiamo paura di fallire. Chi guarda il mondo con gli occhi dell’economia, chi pensa alla sua vita come una scalata al potere, inevitabilmente alimenta i mostri che sono dentro di noi: l’uomo che ha messo una ricchezza ingente nelle nostre mani (pensiamo che un talento corrispondeva a seimila giornate di lavoro) diventa un padrone spietato, gli altri diventano concorrenti da sbaragliare, il mondo diventa il tribunale pronto a giudicarci senza misericordia.
La logica dell’economia ci accompagna fin dai primi passi, perché ci hanno insegnato da subito a dover essere i più bravi, ci hanno ordinato di portare a casa il risultato, la sconfitta diventa un dramma. Alimentati da questa cultura, non potremo che avere uno sguardo di diffidenza su chi incrocia il nostro cammino. La vita diventa una grande competizione, in cui succede anche di non qualificarsi ai mondiali.
Siamo in molti a non reggere a questa cultura della competizione, e allora, come l’ultimo servo della parabola, possiamo decidere di dichiararci sconfitti in partenza. Seppellire il talento voleva dire, secondo la legge rabbinica, liberarsi dalla responsabilità della ricchezza affidataci. Ecco, possiamo dichiaraci non responsabili. Ma in questo modo non seppelliamo solo il talento, seppelliamo anche noi stessi. Abdicare alla propria responsabilità vuol dire non vivere più!
In questo testo, Gesù ci invita a uscire dalla logica dell’economia, innanzitutto perché la vita che ci è stata affidata non è nostra: «avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri». Quella ricchezza non è nostra. Piuttosto che sprecare energie a confrontare chi ha avuto di più, Gesù ci suggerisce di concentrarci su come custodire quello che abbiamo ricevuto.
Il messaggio della parabola è che a tutti è stata data fiducia: non c’è nessuno che non abbia ricevuto qualcosa di cui prendersi cura. La vita ha sempre generosamente un compito per ciascuno di noi. L’attenzione è sul nostro compito, non sul confronto con i compiti degli altri. E, dice Gesù, non è neppure importante il frutto del tuo lavoro, è importante che ti sia preso cura di quello che è stato messo nelle tue mani.
La nostra cultura continua a insinuare nella nostra mente che «vali se produci!», Gesù ti dice che tu vali sempre, che qualcuno si è fidato di te, perciò giocati questa vita senza affossarti con le tue mani!
Alla logica dell’economia, Gesù risponde con la logica della fiducia, l’unica prospettiva che ci permette di ritornare a guardare le cose per come sono veramente.
19
Novembre
2017
Il vantaggio di una sconfitta a tavolino
commento di Mt 25,14-30, a cura di Gaetano Piccolo SJ