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Ho trovato Dio il giorno in cui ho perduto di vista me stessa
Teresa d’Avila, Il castello interiore
Mi preparo
Chiudo gli occhi,
mi concentro sul momento presente,
libero la mente da preoccupazioni e pensieri,
esprimo interiormente il mio desiderio di stare alla presenza del Signore
Entro nel testo (Lc 11,42-46)
In quel tempo, il Signore disse: «Guai a voi, farisei, che pagate la decima sulla menta, sulla ruta e su tutte le erbe, e lasciate da parte la giustizia e l’amore di Dio. Queste invece erano le cose da fare, senza trascurare quelle. Guai a voi, farisei, che amate i primi posti nelle sinagoghe e i saluti sulle piazze. Guai a voi, perché siete come quei sepolcri che non si vedono e la gente vi passa sopra senza saperlo». Intervenne uno dei dottori della Legge e gli disse: «Maestro, dicendo questo, tu offendi anche noi». Egli rispose: «Guai anche a voi, dottori della Legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito!».
Mi lascio ispirare
È probabile che davanti a queste parole ci vengano in mente persone ben precise, che chiudono più che aprire le porte delle nostre chiese. E fa rabbia. Facciamo i conti con questa santa rabbia, oggi. Penso a tutte le pie pratiche che diventano pretesti per distinguersi e porsi al di sopra degli altri. Alle domande che non creano dialogo ma che pretendono con violenza risposte. Questo è mortifero.
Non ce ne accorgiamo, ma qualcosa sta marcendo proprio sotto (e dentro) di noi. Oltre le apparenze. Guardo questi sepolcri immacolati, e stavolta però provo ad immaginarmici dentro. Sembra tutto in ordine, ma niente lo è davvero. Lo spazio è soffocante, diventa sempre più stretto. È buio. Dall’interno di un sepolcro del genere nessuno può sentirmi, nessuno può veramente raggiungermi. Ed ecco, oltre la rabbia, ora vedo anche la grande solitudine dei nostri scribi e farisei, un’autocondanna alla solitudine. Qui non c’è posto per altri che per se stessi e il proprio ego.
Ma Gesù ci provoca e ci stana da questi luoghi. Svela le ipocrisie, nostre e altrui. Il suo «guai» è un monito, ha una sfumatura di tristezza. Questi sepolcri sono gli strati di maschere che abbiamo imparato a indossare. Per adattarci alle situazioni per come ci riesce, si finisce per dimenticare chi siamo. Tocca a noi cambiare le cose.
Provo a sentire come mi sta addosso ora il posto che mi sono scelta nel mondo. Se mi sta stretto, forse qualcosa non va, tra esterno e interno. Un bisogno sano, come quello di essere riconosciuti e accolti, può trasformarsi in un incubo, se ci convinciamo che il nostro valore dipenda dall’opinione che gli altri hanno di noi. Una bella responsabilità può finire seppellita dal peso delle aspettative altrui, o quello dei ruoli da interpretare. Impariamo a lasciar andare quello che non ci corrisponde più, a rifiutare i pesi imposti.
Chiesa dovrebbe essere un luogo in cui si viene fuori per come si è veramente, in cui poter crescere, cadendo e ricominciando sempre, in cui allargare il cuore, e scoprire e mettere in comune i talenti con gioia. Lasciamole cadere, queste maschere. Sarà bello ritrovarsi, potersi guardare davvero negli occhi.
Immagino
Provo a visualizzare la scena, il luogo in cui avviene, i personaggi principali, le parole che si scambiano, il tono delle voci, i gesti. E lascio affiorare il mio sentire, senza censure, senza giudizi.
Rifletto sulle domande
Qual è il tuo sepolcro imbiancato?
Da dove viene la tua rabbia, da quale paura?
Quale maschera va fatta cadere per essere ritrovati?
Ringrazio
Come un amico fa con un amico, parlo con il Signore su ciò che sto ricevendo da lui oggi...
Recito un "Padre nostro" per congedarmi e uscire dalla preghiera.
15
Ottobre
2025
Sotto le maschere
commento di Lc 11,42-46, a cura di Caterina Bruno