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Gli occhi fanno quel che possono
niente meno e niente più,
tutto quello che non vedono
è perché non vuoi vederlo tu.
Luciano Ligabue, Cosa vuoi che sia
Mi preparo
Chiudo gli occhi,
mi concentro sul momento presente,
libero la mente da preoccupazioni e pensieri,
esprimo interiormente il mio desiderio di stare alla presenza del Signore
Entro nel testo (Mc 8,22-26)
In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli giunsero a Betsàida, e gli condussero un cieco, pregandolo di toccarlo. Allora prese il cieco per mano, lo condusse fuori dal villaggio e, dopo avergli messo della saliva sugli occhi, gli impose le mani e gli chiese: «Vedi qualcosa?». Quello, alzando gli occhi, diceva: «Vedo la gente, perché vedo come degli alberi che camminano». Allora gli impose di nuovo le mani sugli occhi ed egli ci vide chiaramente, fu guarito e da lontano vedeva distintamente ogni cosa. E lo rimandò a casa sua dicendo: «Non entrare nemmeno nel villaggio».
Mi lascio ispirare
Lasciarsi portare fuori dalle situazioni in cui ci siamo impantanati. Dapprima sono forse gli amici o i familiari di quest’uomo che riconoscono che non può farcela da solo e lo portano a Gesù. E lui, che avrebbe potuto guarirlo lì per lì, non lo fa. Perché?
Questa guarigione prende del tempo, è un esodo da se stessi. C’è un cammino da fare, da soli con lui, senza forzare il passo. Continuando a essere ciechi. C’è da imparare ad avere fiducia in te, prima. A lasciarmi prendere per mano, seguirti, con tutti i miei limiti e la mia incapacità di vedere le cose per quello che sono, il mio non voler vedere le cose per come sono. Perché forse aprire gli occhi ora farebbe troppo male.
Mi prendi il viso tra le mani con delicatezza e quell’impasto di saliva che disinfetta mi ricorda il gesto dei bambini che premono con la bocca sulle ferite. I miei occhi sono feritoie. Si aprono lentamente ma faccio ancora fatica a distinguere chiaramente i contorni di quello che vedo. È tutto indistinto, confuso. Non riesco ancora a discernere, a dare un nome alle cose. La prima cosa che vedo sono questi alberi che avanzano, vedo i miei fratelli, ma non li vedo bene. Vedo tutto ancora con il filtro delle mie ferite, delle mie paure. Che bella immagine però questa degli alberi per dire uomini, alberi che danno riparo, nutrimento, con le radici nella terra e proiettati verso il cielo. Ma camminano, non devono per forza stare fermi in un posto.
E tu non perdi la pazienza con me. Di nuovo mi imponi le mani sugli occhi, tocchi il mio volto come farebbe un cieco per fissarmi nella memoria, perché mi riconosca. Se prima il testo greco usa il verbo “vedere”, ora viene usato “guardare”, più a fondo, oltre. Chiaramente. Persino da lontano, con consapevolezza. E tu mi rimandi a casa, non al villaggio. Anche io ora sono un albero che cammina, che vede bene e quindi può scegliere dove andare. Posso essere casa per altri, un luogo in cui non devo difendermi, in cui posso essere pienamente me stessa, dove amo, sono amata. Non ho più bisogno di guardarmi indietro.
Immagino
Provo a visualizzare la scena, il luogo in cui avviene, i personaggi principali, le parole che si scambiano, il tono delle voci, i gesti. E lascio affiorare il mio sentire, senza censure, senza giudizi.
Rifletto sulle domande
Chi ti aiuta ad aprire gli occhi su quello che non riesci a vedere?
Cosa vedi?
Da quale villaggio occorre prendere congedo per andare verso casa?
Ringrazio
Come un amico fa con un amico, parlo con il Signore su ciò che sto ricevendo da lui oggi...
Recito un "Padre nostro" per congedarmi e uscire dalla preghiera.
15
Febbraio
2023
Come ciechi
commento di Mc 8,22-26, a cura di Caterina Bruno