Ciascuno di noi avverte l’esigenza più o meno forte di lasciare un segno nella storia. Vorremmo che la nostra vita non finisse, abbiamo paura di cadere nell’oblio, di essere dimenticati. Spesso riversiamo questa paura sui figli, consegniamo loro il nostro nome come se ci affidassimo a loro per essere proiettati nel futuro.
Anche per questo facciamo fatica quando i figli non riproducono esattamente i nostri desideri. Restiamo inevitabilmente delusi, perché comunque un figlio rappresenta l’impossibilità di controllare la vita.
Chi vive l’esperienza del genitore conosce bene questa dinamica: pian piano appare sempre più chiaro che i figli non ci appartengono. Anzi, la negazione di questa separazione naturale crea problematici rapporti di simbiosi che non fanno bene a nessuno.
Nelle famiglie moderne questo rapporto simbiotico è sempre più frequente: i figli si ritrovano ostaggio dei genitori, ma entrano volentieri in questo gioco. Le differenze si annullano. E il genitore ha ancor di più l’illusione di poter continuare a vivere nel figlio.
Le letture di questa festa ci aiutano invece a riflettere sul momento in cui si diventa autenticamente genitori, quando cioè si è capaci di incontrare il figlio nei luoghi che non sono stati pensati per lui.
La paura di Abramo è quella di andarsene senza discendenza, ovvero di concludere la vita senza averle dato un senso. È la paura di scomparire. La parola di Dio lo riconduce verso la vera fonte della generazione: Dio invita Abramo a guardare le stelle (sidera), ovvero a volgere lo sguardo verso i suoi desideri, verso quello che veramente desidera. A volte la vita resta sterile perché non siamo abitati da alcun desiderio. Nonostante tutta la sua ambiguità, un figlio è l’espressione del proprio desiderio, ma proprio per questo il figlio, come il desiderio, sfugge al nostro controllo. Come un desiderio, così dobbiamo essere disposti a seguire un figlio laddove vuole condurci.
Il figlio è dunque l’immagine più eloquente della vita come dono, della vita incontrollabile e sfuggente, la vita che non ci appartiene.
Maria e Giuseppe riconoscono, come ogni pio israelita, che la vita appartiene solo a Dio e per questo si recano al tempio per restituire la vita alla fonte. Questo è infatti l’amore vero: riconoscere il dono e restituirlo, senza impossessarsene. Maria e Giuseppe riconoscono che nulla ci appartiene. Dicono la verità sulla loro storia e sulla storia del figlio.
Più volte il testo si riferisce alla legge per sottolineare la sottomissione di Maria e Giuseppe ad essa. Non alla legge in sé, ma a colui che ha dato la legge, che è lo stesso che ha dato loro il figlio. Maria e Giuseppe mostrano così la loro obbedienza alla vita e non se ne riconoscono padroni o proprietari.
Maria è invitata dal profeta Simeone a meditare ancora su questa libertà: la spada che inevitabilmente attraverserà il suo cuore è la spada della separazione, quella che inevitabilmente attraversa il cuore di ogni madre, che anche fisicamente, fin dall’inizio, è costretta a sentire nella carne questa separazione inevitabile.
Maria diventerà madre nel momento in cui comprenderà la necessità di questa separazione: è chiamata madre solo dopo aver perso e ritrovato il figlio nel Tempio mentre si occupa delle cose del Padre. È l’inizio e il presagio di quella separazione progressiva che si compie sotto la croce.
L’esperienza di Abramo prima e di Maria dopo ci insegnano dunque che si arriva a generare solo se si è disposti a non possedere. Non si può generare senza libertà, possiamo lasciare un segno solo se siamo disposti a scomparire.
31
Dicembre
2017
Non ti riconosco più!
commento di Lc 2,22-40, a cura di Gaetano Piccolo SJ